Sul cambiamento d’epoca
Una delle più geniali intuizioni di papa Francesco, nell’indimenticabile discorso a Firenze (10 novembre 2015), è di sicuro quel “cambiamento d’epoca” con il quale egli indica una profonda e irreversibile trasformazione della società attuale e del nostro vissuto. Non si tratta di uno slogan, bensì di una tematica cruciale ancora da approfondire e che incrocia la stessa tenuta “evangelica” del cristianesimo nel mondo contemporaneo.
Un’immagine, Cuore di tenebra di Joseph Conrad
Accade spesso che opere di letteratura, pur molto studiate e interpretate dalla critica, emergano improvvisamente dalla coscienza e riescano a intercettare quegli interrogativi che non sono soltanto esistenziali, ma anche epocali. Là dove, infatti, vi è in un’opera letteraria una ricerca, quindi una ferita, forse mortale o angosciosa, vi è anche una sorta di rivelazione che non smette di emanare segnali di illuminazione, anche nelle mutate situazioni della vita e della storia. E ora che papa Francesco, al di là delle oscure ed enigmatiche contestazioni che investono il suo magistero, ha evocato per tutti, credenti e non credenti, quel guado del “cambiamento d’epoca” che effettivamente ci sta davanti, ecco il breve racconto di Joseph Conrad (1857-1924) Cuore di tenebra giungere a noi nella sua fervida e immutata profezia quasi ad onta del suo lungo e fossilizzato passato.
Nel 1890, in effetti, Conrad si era recato per sei mesi in Africa, ma ne era ritornato quasi in fin di vita, con un bagaglio di ricordi, disillusioni e “disgustosa conoscenza” da cui, nove anni dopo, sarebbe nato Cuore di tenebra (1899). Marlow, il protagonista, viene ingaggiato da una compagnia commerciale e mandato in Congo per il recupero di una notevole quantità di avorio della quale si sono perdute le tracce. Ed è qui che Marlow incontra Kurtz, il vero fulcro della vicenda. Al centro della “tenebra” che dà il titolo al racconto, di fatto, c’è proprio l’enigmatico personaggio di Kurtz, colonialista visionario, megalomane, consumato dalla febbre e dalla follia, un autentico reietto del colonialismo ottocentesco che si è inventato tuttavia un suo regno nel cuore del Congo. Così, man mano che, attraverso il resoconto di Marlow, ci inoltriamo nella foresta africana sulle tracce del misterioso Kurtz, scopriamo che la tragica parabola di Conrad non è solo una vibrante denuncia della devastazione prodotta dall’imperialismo europeo e dallo sfruttamento disumano praticato dalle compagnie commerciali nel continente nero di fine Ottocento. In realtà, quel viaggio di Marlow, sul battello fluviale che discende nel ventre dell’Africa, è soprattutto una discesa nelle profondità oscure dell’animo umano quando è immerso nelle pagine fosche e violente della storia che lo domina e lo imprigiona. Scrutando nell’abisso che si era aperto sulla vita di Kurtz, Conrad scopre ad un certo punto la tenebra che è al cuore di ogni cosa, l’orrore metafisico, come è stato giustamente definito (Francesco Binni), che incalza e distrugge la vita umana allorché è preda di quella “volontà di potenza” di cui la civiltà dell’uomo europeo è metafora potente oltre che incarnazione del male a tutti gli effetti.
Non a caso, quindi, Cuore di tenebra ha ispirato il terribile e suggestivo film di Francis Ford Coppola Apocalypse Now che racconta la vicenda del colonnello Kurtz sullo sfondo della devastante guerra del Vietnam, un capitolo chiave della storia del neocolonialismo americano in pieno Novecento. Entrambe le opere, il racconto e il film, articolano i loro soggetti come rappresentazioni efficaci delle drammatiche vicende sociopolitiche dei loro rispettivi periodi storici: il primo descrive la pratica e il significato del colonialismo europeo, dunque del passato, mentre il secondo tenta di leggere la guerra in Vietnam con le sue conseguenze devastanti sulla psicologia individuale degli uomini, quando è in gioco lo stesso imperialismo capitalistico, e nella versione della guerra in Vietnam, dunque al presente. Ma ciò che conta è il fatto che Cuore di tenebra è un racconto adattissimo ed efficace per un film, come Apocalypse Now, che annuncia eventi storici e sociali, al seguito di quella guerra, altrettanto distruttivi e onnipresenti. Questo è precisamente il significato del titolo del film. Niente sarà come prima, perché la guerra, sia commerciale che militare, cambia la vita degli uomini e la loro storia. Ciò che resta in campo, tuttavia, è la lotta tra la verità e la menzogna che entrambe le opere di critica estetica della storia, il racconto di Conrad e il film di Coppola, si incaricano di illuminare quelle coscienze, tormentate e incerte, intrappolate in ogni “cambiamento d’epoca”.
Una discesa nel mondo infero
È stato detto che i veri poeti sono profeti, e lo sono nella misura in cui l’intelligenza della loro sensibilità li conduce a esplorare, e quindi a portare alla luce, quel “mondo infero” della condizione umana che essa nasconde dentro di sé e che, paradossalmente, non vuole riconoscere per cui non cessa di proiettarla fuori di sé, negli altri che sono a portata di mano oppure nella società, ritenuta spesso il ricettacolo d’ogni male. Questa incredibile e impervia “proiezione” è stata definita da Jung l’Ombra (con la maiuscola) ed è di fatto il bagaglio di quel rimosso, insopportabile e foriero di acuta inquietudine, che ogni esistenza umana, come anche ogni epoca della storia, porta sulle sue spalle nella fatica improbabile di allontanarlo, con ogni mezzo, dal proprio vissuto. Una fatica di Sisifo, direbbe il mito antico.
Cuore di tenebra di Conrad, intanto, è indubbiamente un testo letterario che richiede di essere letto e meditato a più livelli, tanto è stratificato e frutto di quella “profezia” della poesia di cui abbiamo detto. Ancora prima, peraltro, di poter parlare, nei termini della fede cristiana, di “salvezza” o di “redenzione” dell’esperienza umana, o di poter mostrare che la luce di Cristo discende “agli inferi” perché l’inferno diventi il luogo della Pentecoste, c’è sempre questa testimonianza della profezia dei veri poeti che osano avventurarsi nelle pieghe nascoste del cuore umano per illuminarle di una qualche luce. Anche se, questa luce, si rivela, dopo tutto, inaccessibile o ancora più fitta dopo ogni tentativo di esplorazione. Come nel caso di Cuore di tenebra. Testo stratificato quant’altro mai, si diceva, ma tutt’altro che improvvisato o da consegnare all’oblio del passato, come dimostra bene, tra l’altro, Giuseppe Sertoli nella sua splendida e pregnante edizione per Einaudi (2016). E d’altra parte è proprio questa edizione, curata da Sertoli, che anche noi ora seguiamo per il percorso di questa nostra esplorazione conradiana.
Un primo livello di lettura di Cuore di tenebra è certamente quello politico, relativo alle pagine più fosche del colonialismo europeo che rappresenta senz’altro una parte cospicua del nostro rimosso. I fittizi richiami, infatti, al “progresso” e allo “sviluppo”, insomma tutte le parole d’ordine messe in campo dal colonialismo, non erano altro che alibi e mistificazioni nel nome delle quali l’Europa si stava spartendo il “corpo” dell’Africa. Così tutto il presente dell’Europa viene chiamato in causa dal racconto di Conrad, e per di più tutto il suo passato. Una civiltà, quella europea, che si presenta, alla resa dei conti, come un enorme vuoto, a tal punto che, fin dalle prime pagine del racconto, con quei riferimenti all’epoca elisabettiana e a quella romana, il mondo e le azioni dei bianchi sono contrassegnati da immagini di vuoto e svuotamento. Bruxelles, ad esempio, è descritta come “città sepolcrale”, “città dei morti”, una città di strade deserte, di grandi palazzi dagli androni e dagli scaloni altrettanto deserti e sinistri, e nei quali si amministra il vuoto della civiltà per diffonderlo poi all’esterno. Nella “selvaggia” Africa.
Se tutto questo è vero, com’è vero, bisognerà concludere che il “cuore delle tenebre” è proprio la civiltà occidentale? Che è proprio la civilissima Europa a oscurare con le sue tenebre, le sue personalissime tenebre, il “cuore bianco” dell’Africa? Se fosse soltanto tutto questo, Cuore di tenebra non sarebbe affatto quel testo stratificato che di fatto è. Rischieremmo di perderne altri aspetti più rilevanti e inquietanti. In realtà, quando Marlow giunge finalmente all’accampamento di Kurtz, la prima visione che ha di lui è quella di un corpo seminudo e macilento, con “gli occhi spettrali” e il braccio levato “in atto di comando”. Immagine eloquente della “regressione” ( di tipo freudiano) di Kurtz che, a contatto con l’Africa, libera il suo rimosso dando sfogo agli istinti più brutali e scatenati della sua sete di potere, di dominio, di sfruttamento. Entriamo così nella parte più drammatica e, si direbbe, intramontabile dell’intero racconto di Conrad, perché proprio qui è il suo perno, lo scavo impietoso e veritiero della psicologia del così detto uomo civilizzato che si è trasformato in un “selvaggio”. Come è avvenuto al colonnello Kurtz in Apoclypse Now, dopo le stragi consumate nella guerra in Vietnam.
Una follia, certo, quella di Kurtz, come non manca di annotare lo sbigottito Marlow: «la sua anima era folle. Sola in quella solitudine selvaggia, aveva guardato dentro di sé e… era impazzita». Che cosa ha potuto provocare una simile follia? La risposta sta nelle parole di Marlow: Kurtz aveva guardato dentro di sé e aveva trovato la sua verità. Il delirio “selvaggio” di Kurtz non è nient’altro che l’altra faccia del suo delirio di onnipotenza, anzi di “apostolo della Civiltà”. Di fronte a questa scoperta, Marlow – e tutto lo spirito del racconto di Conrad – smette di interrogarsi sui “selvaggi” africani per concentrarsi piuttosto sulla propria identità di europeo, di uomo civilizzato, e che ora deve affrontare la sua Ombra, il suo rimosso. Di fatto, sua è la tenebra, certo di Kurtz, ma anche di Marlow, che ora deve difendersi da quella rivelazione inattesa, dal momento che questa tenebra, dell’uno e dell’altro, è l’unica tenebra che a Marlow sia dato di incontrare nel suo viaggio al cuore dell’Africa. Come splendidamente testimonia la sequenza finale della morte di Kurtz: «Una sera, – ricorda Marlow –, entrando nella sua cabina con una candela in mano, trasalii sentendogli dire con voce tremula. “Giaccio qui al buio in attesa della morte”. La luce era a una spanna dai suoi occhi». E quando, all’annuncio dell’avvenuta morte di Kurtz, tutti i “pellegrini” si precipitano fuori della sala mensa per andarlo a vedere, soltanto Marlow non si alza da tavola e continua tranquillamente a mangiare: «C’era una lampada là dentro – della luce, capite – e fuori la tenebra era così spaventosa, spaventosa». Lui, Marlow, vuole restare nella luce, proprio perché, a differenza degli altri, ha capito la tragedia di Kurtz e intravisto l’abisso che minaccia il cuore di ogni uomo. Lui se ne terrà lontano nel modo che può e si difenderà con gli unici mezzi, per quanto fragili e illusori, che ha a sua disposizione: la luce di una flebile lampada, appunto, ovvero le incombenze della sua vita quotidiana, il suo lavoro, il suo attivismo che d’altronde lo porteranno a riguadagnare il suo ritorno in Europa dopo la tragica esperienza del destino di Kurtz.
Un viaggio tra la luce e la tenebra
Viaggio nell’esteriorità del continente africano, ma viaggio al contempo nell’interiorità dell’anima europea, Cuore di tenebra raggiunge così un altro livello, il più profondo e quasi insondabile, che Giuseppe Sertoli chiama, giustamente, “conoscitivo” poiché sembra riportare la fine del racconto al suo inizio. Quando, cioè, Marlow, al suo giungere in Africa, si pone la domanda: «che cosa significa tutto questo?». Soltanto che, a questa domanda, egli non troverà nessuna risposta. La “verità” dell’Africa, infatti, rimarrà inaccessibile a Marlow e soprattutto egli rinuncerà a capire il mistero di quella cultura poiché si era reso conto, nella sua esperienza in quella terra desolata e selvaggia, che anche la conoscenza è una forma di potere, al pari del dominio politico ed economico. Il colonialismo, in altre parole, non è solo quello dei mercati dell’avorio, ma anche quello della scienza e del sapere che, anche quando vuole comprendere l’Altro, la sua cultura e le sue credenze, non può far altro che svuotarli di senso e manipolarli.
Per questa ragione Marlow ritorna in Europa, ma non racconta a nessuno quella tremenda verità che ha intravisto nel destino di Kurtz che ha scelto di morire a sé stesso e al proprio mondo. Marlow, infatti, ha visto l’inconcepibile enigma di un’anima che, lottando con sé stessa, non conosceva nessun ritegno e nessuna paura, fino all’ultimo, fino alla soglia della morte. Quando, ormai in agonia, ripete: «L’orrore! L’orrore!». Parole, afferma Marlow, con cui egli, «in un istante di suprema conoscenza», ha tirato le somme della propria vita e si è giudicato. La scelta del negativo, anche se ha tentato lo stesso Marlow, non fa per lui, ed anzi la sua volontà di “salvare le apparenze” lo trattiene dal seguire Kurtz sul fondo dell’abisso. Così Marlow sceglierà di sopravvivere in quella zona “grigia” e “tiepida” – nel senso biblico del termine –, che è il luogo per eccellenza del compromesso e dello scetticismo. Si è reso conto, certo, della menzogna della sua civiltà, ma è a quella menzogna che decide di tornare dal momento che, al di là di essa, non c’è nulla se non “l’orrore” della perdita di sé e il buio della morte. Accettando di vivere scetticamente nella menzogna, egli potrà almeno testimoniare il destino di Kurtz e raccontarne la tragedia per dire, dopo tutto, che la menzogna è tale e che la verità sta sempre altrove.
A chi la testimonierà, Marlow, una volta rientrato a Bruxelles? Non certo ai funzionari della Compagnia, ai giornalisti, ai politicanti e ai sedicenti parenti di Kurtz che lo assillano per conoscere i dettagli della sua avventura e del suo epilogo. Ed è allora che egli si ricorda della promessa sposa di Kurtz, vista in una immagine tra le carte di questi, e decide di andarla a trovare per raccontarle la verità della sua tragedia. Il colloquio con lei, patetico e al contempo farsesco epilogo della tragedia di Kurtz, è di sicuro una pagina memorabile non solo della scrittura letteraria di Conrad, ma anche della impareggiabile forza della letteratura in ogni tempo. Orchestrata, infatti, sullo stesso simbolismo cromatico dell’intero racconto – il bianco «dell’imponente camino di marmo» e il nero del «massiccio pianoforte», il pallido incarnato della donna e il nero «del suo vestito» –, quella scena in cui Marlow avrebbe potuto finalmente dire la vittoria della verità sulla menzogna, si risolve piuttosto nel suo contrario. Marlow mente, in effetti, all’anima della promessa sposa di Kurtz e nasconde l’orrore della sua vera fine, e dice piuttosto: «L’ultima parola che (Kurtz) pronunciò fu – il vostro nome». Il nome dell’amata, come in un melodramma di fine secolo, consolante e consolatorio! E man mano che il colloquio si svolge tra esitazioni, reticenze e quest’ultima, fatale menzogna di Marlow, la notte scende dalle grandi finestre del salotto, mentre l’oscurità invade tutta la stanza.
L’orrore di Kurtz non c’è mai stato e il grido «L’orrore! L’orrore!», che era stato una sentenza pronunciata su sé stesso e sulle menzogne della sua civiltà, è come se non fosse mai stato pronunciato. Mentendo alla promessa sposa di Kurtz, per salvarne la grande illusione dell’amore eterno, Marlow salva anche le illusioni, certo salvifiche, di tutti i “comuni individui”, “idioti giulivi” precisa Conrad, che della verità di Kurtz non sospettano minimamente ed anzi forse non vogliono sapere nulla. Del resto, in tutto il racconto di Conrad, la luce è sinonimo di illusione e inganno, e la tenebra invece di verità. Il che non impedisce, quasi in controluce, di ricordare il drammatico avvertimento del Vangelo di Giovanni: «venne la luce, ma gli uomini non l’hanno accolta» (cfr. Gv 1,9-11). Eppure, Marlow, se ha mentito con la promessa sposa di Kurtz, non ha mentito tuttavia agli ascoltatori che viaggiavano con lui verso l’Europa. A loro la verità la dice. Conrad la dice, attraverso di lui, a tutti noi lettori d’ogni tempo, con il suo indimenticabile e tragico racconto di Cuore di tenebra (cfr. Giuseppe Sertoli, Introduzione a Joseph Conrad, Cuore di tenebra, Einaudi, Torino 2016, p. XIII-XXXIX).
Il cambiamento d’epoca e la questione umana
Tuttavia, molti di noi, imbarcati a forza nelle galere del nostro tempo, qualunque esso sia, come diceva Camus, si potrebbero domandare che cosa c’entra questa lunga analisi del racconto di Conrad con il “cambiamento d’epoca” di cui si diceva all’inizio. Di sicuro non è, come si potrebbe pensare, un più o meno brillante esercizio letterario che funziona da pretesto per qualsiasi argomento. Ed è un bene, in ogni caso, che, dopo aver ascoltato “la verità” di Kurtz, ognuno di noi si faccia giustamente la domanda che proprio Marlow non cessa di porsi nel racconto di Conrad: «Che cosa significa tutto questo?». Significa, intanto, che la letteratura, quella vera, parla sempre di noi, della nostra vita, e dell’ambiente in cui viviamo. Vale a dire di quella cultura che ci modella e di cui è impregnata la nostra vita più segreta e inafferrabile, volenti o nolenti, consapevoli o inconsapevoli.
D’altra parte è difficile essere contemporanei, affermava il card. Carlo Maria Martini, e lo è ancora di più ai nostri giorni dal momento che il tempo che viviamo si presenta con luci e ombre, ma dalle tonalità indefinibili. Talvolta, infatti, abbiamo la sensazione di aver attraversato gli ultimi riflessi di un crepuscolo – il grande disegno di un cambiamento in senso etico del passato Novecento –, mentre non ci è dato vedere ancora l’alba che dovrebbe seguire al crepuscolo e alla notte. Come ha rilevato Giuliano Zanchi: «Quello che si percepisce è uno stato di insistente penombra in cui tutto avanza con le sembianze di un fantasma e nella quale ci si addentra con circospetta prudenza. I molti lampi che attraversano il cielo sono folgori che seminano inquietudine consumando il fragile capitale della speranza… Qualcuno resta paralizzato. Altri tentano la corsa verso segnali che credono di avvistare all’orizzonte. Chi mormora nell’affanno. Chi alza la voce con la pretesa di guidare gli incerti» (G. Zanchi, L’arte di accendere la luce. Ripensare la Chiesa pensando al mondo, Vita e Pensiero, Milano 2019, p. 9). Di sicuro c’è il fatto che davvero «non viviamo un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento d’epoca», secondo l’intuizione di papa Francesco. E un cambiamento d’epoca, come ci insegna la storia, porta sempre con sé smarrimento e frantumazione di valori, creduti per lungo tempo inalienabili, e, per conseguenza, una prassi spesso marcatamente inumana e non da ultimo alienante.
Era un’epoca di cambiamento, quella descritta da Conrad in Cuore di tenebra, e nella quale il colonialismo europeo si avviava inesorabilmente verso la notte delle due guerre mondiali, al principio e nel mezzo del Novecento. E oggi sappiamo che fu proprio l’umanesimo classico, che la borghesia commerciale europea si portava dietro come la parte migliore di sé stessa nelle conquiste coloniali, a derubare della loro umanità le culture sottomesse in Africa. Senza mostrare ad esse quell’altro tipo di umanità che prometteva. Ma anche oggi siamo in un’epoca di cambiamento, soltanto che non sappiamo ancora l’esito di questo cambiamento soprattutto nel fattore umano che, del resto, è quello che più ci interessa e ci interroga. Oltre ad essere, per Conrad, una questione cruciale per il suo racconto e per la sua stessa scrittura letteraria. Allora, come oggi, tutto sommato, la natura, per dirlo con Nietzsche, “ha gettato via la chiave” della questione umana che rimane un enigma, anche se l’enigma non blocca l’intelligenza, ma la provoca. Dunque, per restare in questo tema, anche nel cambiamento d’epoca che viviamo, l’uomo sembra più che mai una “questione aperta”, come direbbe anche Lorenzo Biagi: «Non solo perché sono venuti meno una serie di predicati legati all’uomo che parevano assodati, ma anche perché in diversi casi le stesse scienze umane da una parte hanno arricchito la nostra autocomprensione ma dall’altra l’hanno resa ancora più complessa e incerta, in qualche caso fino a demolirla» (L. Biagi, Uomo, Edizioni Messaggero di Padova, 2020, p. 87).
Non si tratta di teorie, peraltro, ma di quella dissoluzione dell’uomo che parte da molto lontano, da Auschwitz, dai Gulag, dai genocidi del Novecento, per giungere, inspiegabilmente, nel razzismo e nell’antisemitismo di ritorno, fino alle nuove discriminazioni, ai milioni di persone che muoiono di fame, di malattie, sete e desertificazione, nel nostro “cambiamento d’epoca”. Ed è forse questo cambiamento a generare questi fenomeni così inquietanti e distruttivi per tutti, quasi a dispetto della retorica imperante che proclama oggi ai quattro venti i “diritti dell’uomo”. Tuttavia, non ci sono soltanto questi fenomeni, che volentieri releghiamo alle minoranze più violente e incivili, ma c’è anche la nostra realtà quotidiana, fatta ugualmente di conflitti, competitività, autoreferenzialità narcisista, e dove il male che pensiamo degli altri è, di solito, una dislocazione dell’ostilità che proviamo per alcuni aspetti della nostra personalità di cui non siamo o non vogliamo essere consapevoli. E che, anche per questo, suscitano in noi rabbia e avversione. In fondo, anche Kurtz di Cuore di tenebra è un campione di quel lato oscuro dell’individualismo che minaccia la nostra umanità e le nostre relazioni in ogni cambiamento d’epoca.
Nell’ombra dell’individualismo
Di fatto, è dal nostro rimosso – l’Ombra di Jung – che dobbiamo partire se vogliamo capire cosa succede all’uomo contemporaneo che si allontana sempre di più dagli altri o da un compito comune per rifugiarsi nel lato oscuro dell’individualismo creando così un campo di rovine dentro di sé e fuori di sé. Come ripeteva, tanto tempo fa, Hannah Arendt. I furtivi ladri o i nemici che ci minacciano, gli assassini che a volte ci procurano risvegli pieni di orrore nei nostri sogni (Claudio Risé), sono solo alcuni volti di quell’Ombra che Marie-Louise von Franz, allieva di Jung, descriveva così: «Usiamo la parola Ombra semplicemente per indicare il fatto che la maggior parte di noi non è pienamente consapevole di tutti i tratti della propria personalità».
Il poeta americano, Robert Bly, da parte sua, descriveva l’Ombra con un’altra immagine molto più efficace e profonda: «All’età di uno o due anni abbiamo una personalità, diciamo così, a 360 gradi. Ma un giorno ci accorgiamo che i nostri genitori non amano alcuni aspetti di questa personalità. Appeso alle nostre spalle, però, teniamo un invisibile sacco; e le parti di noi che ai nostri genitori non piacciono, per non perdere il loro amore, le mettiamo lì» (R. Bly, Il piccolo libro dell’Ombra, Red Edizioni, Como, 1992, p. 33). Così il celebre complesso di Edipo cede il posto, all’interno dell’analisi, al grande produttore di nevrosi contemporanea che non è più l’amore vietato per il genitore, ma il genitore che non ci ama abbastanza. L’ombra, il rimosso, è la tremenda ferita dei “non amati” che in questo modo mettono in scena la commedia delle false identità per la quale conquistare, a qualsiasi prezzo, ricchezza, potere, riconoscimento pubblico, e così via. Le persone più avvedute, sensibili e intelligenti, invece, chiedono di essere accompagnate dentro quell’Ombra carica di tutto il male che attribuiamo sempre agli altri, fuori di noi, ma in cui abitano aspetti essenziali della nostra identità umana. Tuttavia, la grande novità che Robert Bly coglieva, rispetto alla letteratura psicanalitica, era uno degli aspetti meno noti dell’Ombra: il suo carattere non esclusivamente individuale, ma anche collettivo e quindi in grado di incrociare il “cambiamento d’epoca”. E in questo senso l’Ombra ci riporta all’individualismo contemporaneo che è una delle cause principali del nostro disagio esistenziale (C. Taylor).
Il male oscuro dell’individualismo postmoderno
Lorenzo Biagi ha dedicato pagine illuminanti nel suo saggio Uomo (pp. 26-32) e sarebbe certamente istruttivo ripercorrerle se avessimo il tempo e lo spazio. Dobbiamo invece limitarci ad una rapida sintesi che, però, offre ugualmente una visuale sul problema tutt’altro che scontata o superficiale. Le antropologie moderne, infatti, confermano che l’uomo, come individuo unico e irripetibile, ha certamente compiuto un grande salto in avanti nel passaggio, direbbe Norberto Bobbio, “da suddito a cittadino”. Questo è vero e rimane un’acquisizione imprescindibile perché acquisita, giustamente, dalla coscienza dell’uomo moderno. Ma il paradosso è che, diventando tale acquisizione una conquista di massa, ha prodotto effetti destrutturanti per le nostre stesse identità e progettazioni di vita. L’ipertrofia dell’io, come è stata chiamata, scredita, a ben vedere, i grandi orizzonti della vita, gli ideali, le grandi domande religiose o storiche e produce quel “vuoto” terribile così tanto testimoniato dalla tragica vicenda di Kurtz in Cuore di tenebra.
In questo senso, la nostra epoca è riuscita nell’intento non solo di di atrofizzare, nella vita della coscienza, l’autorità dell’ideale altruista, ma anche di decolpevolizzare l’egocentrismo, e legittimare il diritto di vivere per sé stessi. In questa autoreferenzialità, la società - i suoi timori e le sue speranze di non cadere nella barbarie - non è che il quadro esteriore e, tutto sommato, indifferente che permette la realizzazione di sé. Già Cristopher Lasch, in tempi non sospetti, aveva intuito questo male oscuro dell’individualismo che trionfa cinicamente nella cultura del narcisismo. «L’emergere del narcisismo – scriveva – significa una perdita di sé stessi, molto più che una forma di auto-affermazione. Implica una identità minacciata dallo spettro della disintegrazione e da un senso di vuoto interiore» (C. Lasch, L’io minimo. La mentalità della sopravvivenza in un’epoca di turbamenti, Feltrinelli, Milano 1996, p. 37; cfr. L. Biagi, L’uomo, cit., pp. 29-30). Un vuoto che produce, a sua volta, quella cultura della sopravvivenza che spiega molte cose della conflittualità contemporanea, anche in persone così dette religiose. Così, tra l’individualismo moderno, che si direbbe tramontato, e l’individualismo dell’autorealizzazione postmoderno, e tra il narcisismo di riflusso e il narcisismo contemporaneo, è racchiusa «la perdita devastante e disumanizzante del programma liberale: la perdita dei legami comunitari e di vicinato» (L. Biagi, cit., p. 31). È un vivere sospesi tra narcisismo e cinismo che genera relazioni umane sempre più fragili, più competitive, più superficiali e insoddisfacenti.
Forse è per questa ragione che, ancora Giuliano Zanchi, ha potuto dire che il cristianesimo, in questo contesto così nuovo e inedito per certi aspetti, è chiamato oggi a rispondere con «la natura profetica della comunione cristiana». Per cui non andiamo troppo lontano dal vero se interpretiamo gli appelli di Papa Francesco alla comunione fraterna, nonché il suo “cambiamento d’epoca”, come sforzi per testimoniare il Vangelo e la missione vissuta delle Beatitudini: i poveri, i miti, gli impotenti, i non violenti, gli onesti, i leali e così via che, per scelta o avventura, decidono di contrastare la tentazione di sentirsi stupidi o ingenui, oppure l’altra tentazione, ancora più pericolosa, di invidiare gli scaltri e gli astuti che approfittano sempre dello smarrimento generale.
Diversamente, se queste due tentazioni dovessero trionfare, ci sarà ancora più buio nel cambiamento d’epoca e, come ha scritto Franco Rella, la questione umana diventerebbe ancora più disperata: «Noi siamo nel mondo, ma nel mondo il buio scompare e avanziamo, come ha detto Eliot, nel buio: uomini vuoti, uomini pieni di vento, uomini pieni di male. La voce che si leva da noi è il fruscio di foglie secche, è lo zampettio dei topi sui vetri infranti di una cantina, è il mormorio continuo di chi soffre e non ha risposta. Giobbe ha chiesto, ha gridato chiedendo, e la risposta di Dio è stata la risposta del potere che sigilla il tutto con un silenzio che copre e annienta ogni domanda» (F. Rella, Figure del male, Meltemi editore, Milano 2017, p. 14).
Ma forse l’uomo, la questione umana anche nell’incertezza del cambiamento d’epoca, è in grado di trovare risorse inaspettate. E in questa speranza, lasciamo la parola finale ancora a Giuliano Zanchi che ci ha segnalato quella tentazione/tentazioni di cui abbiamo parlato prima: «Ci vuole una grande fede per respingere una tale tentazione. La vita reale è una giungla. L’uomo nei confronti dell’uomo si comporta come un lupo. Perciò alla domanda “la fraternità può davvero essere il compimento della natura umana?” il buon senso e la cultura dicono di no. Il Vangelo di Gesù invece continua a dire di sì. La buona notizia è che si può essere umani fino in fondo scontando le perdite apparenti e senza sentirsi degli stupidi. Ma perché il Vangelo sia credibile occorre che qualcuno ci provi. I cristiani esistono per “provare” che la via evangelica è credibile. Per questa ragione il loro modo di testimoniare è la vita comunitaria» (G. Zanchi, L’arte di accendere la luce, cit., p. 81). Davvero l’unica possibilità nel cambiamento d’epoca che ci sovrasta e ci possiede.
Carmelo Mezzasalma
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